da Redazione | 18 Ottobre, 2019 | Mondo, Cultura, Notizie
Sulla pericolosità della cannabis nella comunità scientifica c’è grande scetticismo, fatta eccezione per due contesti precisi: l’assunzione di Thc durante l’adolescenza, quando le connessioni neuronali sono ancora in formazione; e i presunti benefici terapeutici, ancora non del tutto dimostrati.
Su questi argomenti abbiamo riferimenti anche in una lettera del segretario generale dell’Oms. In Italia invece, il Consiglio superiore di Sanità aveva messo in guardia contro le false speranze riguardo agli usi terapeutici, spesso ingigantiti.
Recentemente sta facendo discutere uno studio annunciato, ma non ancora reso pubblico. Riguarda una pillola al Cbd che secondo i ricercatori del University College di Londra, permetterebbe di ridurre la dipendenza da Thc. Come accennato questa eventualità riguarderebbe coloro che hanno assunto cannabis fin dall’adolescenza.
Differenze tra Thc e Cbd
Nel presentare la nuova ricerca si parla dell’idea apparentemente paradossale di combattere la dipendenza da cannabis, assumendo cannabis in pillole. Il trattamento però riguarda l’assunzione di Cbd per far fronte alla dipendenza da Thc.
Il Delta-9- tetraidrocannabinolo (Thc) è la sostanza che il genere femminile della canapa sativa produce dalle sue infiorescenze per difendersi. Si tratta di un composto simile agli endo-cannabinoidi che il nostro Sistema nervoso produce di suo quotidianamente.
Grazie a questa “somiglianza” il Thc riesce a trarre in inganno il nostro cervello, dandoci sensazioni stupefacenti. Ma la canapa produce anche un altro composto, ovvero il Cbd (cannabidiolo), e altre sostanze presenti in quantità minori. Esistono infine i cannabinoidi sintetici (Scb).
I potenziali limiti dello studio
Uno dei limiti di questo studio è che non possiamo ancora leggerlo. Disponiamo però di alcune affermazioni rilasciate da due ricercatori del team (Val Curran e Iain McGregor dell’Università di Sydney), con alcuni accenni al modo in cui è stato svolto. Ne parla NewScientist, in occasione della presentazione dello studio al NewScientist Live 2019 tenutosi a Londra.
Come spiegato da Val Curran «Mentre il Thc tende ad aumentare l’ansia, il Cbd rende le persone più calme [inoltre] il Cbd elimina gli effetti tossici del Thc». La ricerca riguardava 82 persone classificate come «gravemente dipendenti», non sappiamo però in che modo: in che misura la dipendenza era psicologica? Quanti di loro consumavano Thc fin dall’adolescenza? Quali altre sostanze erano contenute negli spinelli che consumavano?
Ad ogni modo, dai dettagli riportati su NewScientist capiamo che alcuni dei volontari facevano parte di un gruppo di controllo a cui è stato dato un placebo e assistenza psicologica. Possiamo quindi dedurre il il Cbd possa aver sul serio aiutato queste persone a ridurre la loro dipendenza.
L’effetto benefico si presentava con la somministrazione di Cbd pari a 400 milligrammi, mentre il doppio della dose non sortiva risultati soddisfacenti.
La verifica in tutti i casi è stata fatta tramite l’esame delle urine «la dose da 400 milligrammi ha anche più che raddoppiato il numero di giorni in cui le persone non avevano Thc nelle urine», riporta NewScientist.
Non sembra quindi che ci sia un controllo diretto dei volontari e dei fattori alternativi che potrebbero spiegare i risultati degli esami, com’è normale che sia in questo genere di ricerche, le quali necessitano ulteriori studi.
Del resto lo stesso McGregor raccomanda prudenza: «A chi non riesce a smettere di fumare cannabis consiglierei di cercare assistenza medica», afferma, riferendosi al Cbd disponibile nelle farmacie, con dosi molto più basse di quelle usate nello studio.
Fonte: open.online
da Redazione | 27 Settembre, 2019 | Cultura, Mondo
Il medico era stato molto sincero con Hannah Deacon, madre di un bambino epilettico. Le aveva detto che non avrebbe mai ottenuto una prescrizione medica dal Servizio sanitario nazionale per un farmaco a base di tetraidrocannabinolo (thc), l’ingrediente psicoattivo contenuto nella cannabis.
Nemmeno il governo britannico è stato d’aiuto, dichiarando nel febbraio del 2018 che la cannabis non ha alcun valore medico. Era la stessa posizione espressa negli ultimi cinquant’anni, nonostante il paese coltivi ed esporti cannabis per uso medico.
Nel giro di pochi mesi però ha compiuto un’inversione a U, accettando l’idea che la cannabis sativa abbia anche usi medici. Otto mesi dopo il primo appello pubblico lanciato dalla signora Deacon, suo figlio Alfie ha potuto ottenere il farmaco a base di thc dal servizio sanitario nazionale.
Cambiamenti simili si stanno registrando in diversi paesi in tutto il mondo. Questo potrebbe lasciar presagire una più ampia legalizzazione. La storia suggerisce che la legalizzazione dell’uso della cannabis per scopi medici è spesso stata il preludio di un più generalizzato accesso a scopi ricreativi.
I trattati farmacologici hanno gravemente limitato la ricerca nel campo della cannabis
Gli esseri umani hanno sfruttato la cannabis sativa per millenni, e il suo uso medico può essere fatto risalire al 400 avanti Cristo. Come altre droghe ricreative, però, nella prima metà del ventesimo secolo ha cominciato a subire delle restrizioni. L’allarmismo dilagava. Una svolta è arrivata nel primo decennio del novecento, quando John Warnock, un medico britannico che viveva in Egitto, suggerì che la cannabis fosse responsabile di gran parte delle malattie mentali e dei reati nel paese.
Quando nel 1924 la Società delle Nazioni si riunì per discutere di narcotici quali l’oppio e l’eroina, le “prove” di Warnock sui pericoli della cannabis ebbero molta influenza. La sua metodologia però lasciava molti dubbi. I dati erano stati raccolti solo esaminando i pazienti in cura per l’infermità mentale. Inoltre, Warnock non parlava arabo e un fattore importante per stabilire se i pazienti avessero usato la cannabis era prendere nota del modo “sovreccitato” in cui negavano di averlo mai fatto.
La follia per lo spinello
Poi negli anni trenta gli Stati Uniti furono investiti da un’ondata di panico morale, quando la cannabis fu accusata di provocare violenze tra gli immigrati messicani e di corrompere i bambini americani. Quando nel 1961 venne istituito presso le Nazioni Unite il sistema internazionale di controllo sugli stupefacenti – la Convenzione unica sugli stupefacenti – l’uso della cannabis nella medicina tradizionale fu del tutto ignorato. Alla sostanza fu attribuito un limitato o inesistente uso terapeutico e fu trattata come una droga pericolosa che, come l’eroina, necessitava dei controlli più rigidi.
La pianta contiene delle sostanze chimiche chiamate cannabinoidi, simili a molecole prodotte dal corpo umano note come endocannabinoidi. Un’ampia rete di recettori nel cervello e nel corpo umano rispondono sia alle versioni di queste molecole contenute nella pianta sia a quelle prodotte dal corpo umano. Il sistema degli endocannabinoidi contribuisce alla regolazione di moltissime cose, dal dolore all’umore, dall’appetito allo stress, dal sonno alla memoria. Fino a oggi sono stati scoperti 144 cannabinoidi diversi nella cannabis sativa, per la maggior parte ancora poco compresi, e si continuano a scoprire nuove proprietà.
Il più noto è il thc, l’ingrediente che fa “sballare”, e il cannabidiolo (cbd), che non fa questo effetto ed è usato sempre più spesso come additivo alimentare. I trattati farmacologici hanno gravemente limitato la ricerca nel campo della cannabis. Nel corso degli anni, però, prove emerse da esperimenti clinici e da altri contesti hanno dimostrato la sua efficacia nella cura di un’ampia gamma di disturbi, dai dolori muscolari alla sclerosi multipla, dalla nausea provocata dalla chemioterapia all’epilessia farmacoresistente al dolore cronico negli adulti.
Utile sia nell’alleviare il dolore sia nel dare piacere, la cannabis è stata molto popolare nei decenni successivi alla Convenzione unica e ai successivi trattati per il controllo degli stupefacenti. È la droga illegale più coltivata e usata al mondo. Nel 2017 era prodotta in quasi ogni paese della Terra. Secondo le stime delle Nazioni Unite, i consumatori di cannabis in tutto il mondo sono 188 milioni (su un totale di 271 milioni di persone che assumono droghe illegali).
Rischi da conoscere
La cannabis non è del tutto esente da pericoli. Un’overdose è improbabile, se non impossibile, ma un consumatore su dieci sviluppa una dipendenza. E in dosi elevate, con varietà particolarmente forti o un consumo prolungato, c’è il rischio di psicosi. Negli adolescenti determina un rischio di ritardo nello sviluppo cerebrale. Tenuto conto, però, della quantità di cannabis fumata per fini ricreativi, è significativa la bassa incidenza di danni che provoca. Ormai più di 30 paesi hanno legalizzato la cannabis per uso medico. In Nordamerica e in America Latina, l’introduzione per uso medico di solito è stata seguita dall’accettazione anche per scopri ricreativi. Alcuni paesi europei hanno liberalizzato entrambi gli usi. La Germania, la Francia e il Regno Unito però si sono concentrati prodotto per uso medico.
Permettere l’uso della cannabis per scopi medici costringe i governi a creare delle strutture normative per controllare la fornitura legale ai pazienti. Una volta che questo è accaduto, sembra più facile per le società accettare l’idea dell’uso per scopi ricreativi. Quando la nonna comincia a fumare cannabis per l’artrite, la droga sfonda tra il grande pubblico.
Ci sono anche altri argomenti persuasivi a favore della piena legalizzazione, come le disparità razziali nei processi, i costi sociali e penali della criminalizzazione di tanti consumatori e i profitti e le tasse che potrebbero essere generati da un settore legalizzato. Tuttavia le sofferenze dei pazienti sembrano avere più peso da un punto di vista politico rispetto ad altre argomentazioni care ai sostenitori della liberalizzazione.
Perfino l’Organizzazione mondiale della sanità desidera per la cannabis un trattamento meno restrittivo
Negli Stati Uniti, 33 stati consentono il consumo della cannabis per scopi medici e 11 hanno legalizzato anche l’uso per scopi ricreativi. Al livello nazionale, la maggioranza della popolazione è a favore della legalizzazione federale. Entro il 2024 la cannabis per uso medico sarà legalizzata in tutti gli stati e l’uso per scopi ricreativi sarà consentito in almeno la metà. Lo prevedono la Arcview market research e la Bds analytics, aziende che monitorano il settore della cannabis. Con l’affievolirsi dell’opposizione, l’uso medico si sta diffondendo a macchia d’olio in tutta l’America Latina, e oggi è disponibile in Argentina, in Colombia, in Messico, in Cile, in Perú, in Giamaica e in Uruguay.
Alcuni governi e alcune assicurazioni sanitarie coprono le prescrizioni di cannabis. Quasi 16mila pazienti tedeschi ricevono cannabis per uso medico, nella maggior parte dei casi per dolori cronici e invalidità, e alcuni perfino per disturbi dell’attenzione. Nel 2017 la principale compagnia assicurativa tedesca ha approvato i due terzi delle richieste e ha speso 2,7 milioni di dollari in cannabis. Quest’anno il parlamento europeo ha approvato un provvedimento (non vincolante) per migliorare l’accesso alla cannabis per uso medico. Perfino l’Organizzazione mondiale della sanità desidera per la cannabis un trattamento meno restrittivo che ne riconosca l’utilità medica e renda più facile la ricerca nel settore. La cosa più straordinaria di tutte è l’arrivo della cannabis per uso medico in paesi dove sembra altamente improbabile un allentamento delle leggi sugli stupefacenti, come la Corea del Sud, la Thailandia e lo Zimbabwe.
Tensione internazionale
Nei paesi che accettano l’uso per scopi medici, la facilità di accesso è variabile. I trattati internazionali sugli stupefacenti tecnicamente permettono il consumo di cannabis a scopi medici. Tuttavia l’organo tecnico delle Nazioni Unite che monitora il rispetto dei trattati sugli stupefacenti (Incb), nei suoi report continua a esprimere fastidio, sostenendo che i programmi per la cannabis a scopi medici sono mal regolamentati e consentono la dispersione della droga anche tra consumatori per scopi ricreativi.
L’Uruguay ha fatto da apripista legalizzando la cannabis nel 2013. A far aumentare la tensione internazionale sullo status legale della cannabis è stata tuttavia la riforma in Canada, un membro del G7, che nel 2018 ha legalizzato completamente la droga. Una decisione motivata in parte dall’idea che un commercio legale e regolamentato avrebbe limitato il mercato nero e protetto i giovani che la acquistavano per vie illegali. Secondo Martin Jelsma del Transnational institute, il cambiamento in Canada ha sollevato forti critiche all’interno delle Nazioni Unite. Il paese adesso è accusato di indebolire il sistema di controllo degli stupefacenti. Bill Blair, ministro responsabile della riduzione del crimine organizzato, ammette che il Canada sta violando le regole. “Ma”, afferma, “si tratta di un approccio di principio”.
Le posizioni riguardo a questa droga si stanno ammorbidendo un po’ in tutto il mondo. Molti paesi importanti però, in particolare la Russia e la Cina, continuano a opporsi implacabilmente alla riforma. L’assenza di un consenso globale impedisce la revisione dei trattati sulla droga. Anche le Nazioni Unite sono divise al loro interno. Il Consiglio sui diritti umani e il relatore speciale sugli omicidi extragiudiziali denunciano le violazioni dei diritti umani associate a politiche nazionali rigide per reprimere il consumo di droghe, e l’Organizzazione mondiale della sanità chiede un cambiamento dello status quo. Tuttavia, l’Incb e l’Ufficio per il controllo della droga e la prevenzione del crimine si oppongono al cambiamento.
Potrebbe essere vero che autorizzare la cannabis per uso medico di solito conduce a una più ampia liberalizzazione. Chi resiste però si ritrova a nuotare controcorrente. Il Messico probabilmente legalizzerà la droga quest’anno, il Lussemburgo seguirà subito dopo e potrebbe diventare il primo paese dell’Ue a legalizzare la cannabis per uso ricreativo, e la Nuova Zelanda sta progettando un referendum su questo argomento. È solo una questione di tempo, ma presto sarà messa in discussione la tenuta dei trattati internazionali sugli stupefacenti. Alcuni temono che il sistema legale internazionale in generale risulterà indebolito da quest’ondata di violazioni delle regole. Blair non è disposto ad assumersi la responsabilità di dare al Canada il compito di contribuire a risolvere il problema.
Ottawa potrebbe ritirarsi dalla convenzione. Il governo canadese tuttavia lo ha già escluso. Quando la Bolivia voleva legalizzare la masticazione delle foglie di coca, si è ritirata dalla convenzione e ci è rientrata con “riserva”. Una possibilità che seduce gli specialisti degli intrighi di politica internazionale è che il Canada e altri paesi che hanno infranto le regole diano via a un accordo inter se (tra loro) che gli darebbe la possibilità di modificare i provvedimenti del trattato sugli stupefacenti attualmente in vigore. Perché questa possa diventare davvero un’opzione, il Canada dovrà probabilmente aspettare che il club dei fuorilegge cresca ancora un po’.
Nel Regno Unito la cannabis per uso medico è legale ma è ancora difficile da ottenere senza una costosa prescrizione privata (il bambino Alfie è stato fortunato). Il dilemma è che la cannabis si trova nel bel mezzo di un’insolita terra di nessuno in campo medico: non è autorizzata per la gran parte degli usi per cui la gente la vuole e non è testata in base agli standard che i pazienti di solito si aspettano quando assumono un farmaco. Eppure, tanti paesi stanno facendo progressi. La Francia per esempio prosegue i test clinici su larga scala degli usi medici della cannabis.
L’ambiguo status legale della droga in campo medico proseguirà ancora per diversi anni. Una lunga storia di pregiudizi ha ostacolato la ricerca e ha privato milioni di pazienti dell’accesso a terapie che avrebbero potuto aiutarli. La creazione di medicine regolamentate e approvate dovrebbe compiere dei passi in avanti, ma è solo l’inizio. Paradossalmente, potrebbe accadere che solo con la legalizzazione della cannabis anche per uso ricreativo riusciremo ad avere un quadro completo dei benefici offerti dalla droga e dei rischi che comporta.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Fonte: internazionale.it
da Redazione | 16 Settembre, 2019 | Cultura, Mondo, Normative
Legalizzare la cannabis nuoce al mercato illegale, che si vede soppiantato da quello legale. È questa la conclusione a cui è giunto uno studio pubblicato sulla rivista Addiction dai ricercatori dell’Università di Puget Sound di Tacoma e dell’Università di Washington (Stati Uniti), secondo cui nello stato di Washington la legalizzazione della cannabis avvenuta nel 2012 ha comportato una diminuzione dell’acquisto della sostanza dal mercato nero. Guidato dal chimico Dan Burgard, direttore del dipartimento di Chimica dell’Università di Puget Sound, il team di ricerca ha analizzato i campioni di acque di scarico di due impianti fognari che servono una comunità di duecentomila persone nello stato di Washington raccolti tra il 2013 e il 2016, ovvero dopo la legalizzazione della cannabis. I dati raccolti dai campioni di acque reflue, scrivono i ricercatori, possono essere molto utili nello studio del consumo di sostanze utilizzate, sia legali che illegali: in alcuni casi addirittura la concentrazione dei metaboliti (i composti prodotti dall’organismo nel corso dei processi metabolici che vengono espulsi tramite l’urina o le feci) rilevati può essere utilizzata per calcolare a posteriori il numero effettivo di dosi di un farmaco utilizzato in una particolare area. Finanziata in parte dal National Institute on Drug Abuse, l’ente di ricerca governativo degli Stati Uniti sul consumo di droghe, la ricerca sull’assunzione di cannabis legale nello Stato di Washington si è basata sulle analisi di 387 campioni di acque reflue raccolti in altrettanti giorni nell’arco di tre anni, dalle quali è emerso che il THC-COOH (il metabolita del THC, il principio psicoattivo della cannabis) presente nelle acque di scarico aumentava del 9% ogni trimestre. I ricercatori spiegano che, se da una parte le persone consumavano più cannabis, dall’altra preferivano acquistarla dai rivenditori legali: durante lo stesso periodo infatti le vendite della canapa legale hanno conosciuto un incremento di vendite del 60-70% ogni tre mesi. «Questi risultati – spiega Burgard – suggeriscono che molti utenti sono passati dal mercato illegale a quello legale».
Secondo i ricercatori i risultati da loro ottenuti suggeriscono che la legalizzazione ha raggiunto uno dei suoi obiettivi principali, ovvero ridurre gli approvvigionamenti dal mercato nero.
da Redazione | 10 Settembre, 2019 | Cultura, Mondo
Sappiamo però che il nostro modello economico va rivisto, in un’ottica ecologica in senso lato: dobbiamo trovare nuovi modi non solo di alimentarci, ma anche di consumare, di produrre energia, nuovi materiali, nuove risorse possibilmente rinnovabili e che non impoveriscano ulteriormente il pianeta che ci ospita. La sfida è così grande che è servita una bambina per mostrarne l’urgenza. Greta Thunberg, nel suo celebre discorso di Katowice nel 2018, ha detto: “Se le soluzioni sono impossibili da trovare all’interno di questo sistema significa che dobbiamo cambiare il sistema.” E come? Da dove partire per cambiare il sistema? Per esempio, trovando un maiale vegetale, la cui coltivazione sia a basso impatto ambientale, e il cui uso sia non solo alimentare ma persino industriale. La canapa.
Che la canapa sia il maiale vegetale, è un detto popolare altrettanto diffuso, forse da prima ancora di scoprirne gli usi possibili più recenti e impensabili. Anche se il suo nome è indissolubilmente legato alla controversa locuzione “droghe leggere”, va sottolineato che alcune delle varietà botaniche di questa pianta non hanno proprio niente a che vedere con l’uso ricreativo in questione.
Generalizzando molto, possiamo dire che la Canapa Sativa, la varietà più diffusa, può essere suddivisa in due sottospecie differenti: l’una contiene alte concentrazioni di THC, la sostanza psicotropa; l’altra ne è priva, ed è questa la varietà che incontra l’industria da un lato e la medicina dall’altro. Dai fiori di questa pianta si ricava infatti il CBD, una sostanza preziosa per le sue proprietà rilassanti e calmanti (attenzione: non allucinogene), sia in caso di stress e ansia, sia in caso di dolori cronici.
C’è di più. Analizzando l’intera filiera della canapa, si scopre che non c’è una produzione di rifiuti ad alto impatto ambientale, anzi: la sua coltivazione contribuisce ad abbattere le emissioni di gas serra, realizzando contemporaneamente un processo di fitobonifica, poiché migliora la fertilità dei suoli, e ha un ruolo di diserbante naturale.
Perchè quindi non ci stiamo dedicando in modo più massivo alla coltivazione della canapa?
Fonte: Il Sole 24 Ore
da Redazione | 6 Settembre, 2019 | Cultura, Italia, Normative
Secondo uno studio italiano la legalizzazione della cannabis light nel nostro Paese ha ridotto la quantità di marijuana spacciata e i relativi ricavi delle organizzazioni criminali
La cannabis light nuoce alla criminalità organizzata. È questa, in sintesi, la conclusione di uno studio condotto da tre ricercatori italiani e pubblicato sulla rivista European Economic Review, “Light cannabis and organized crime. Evidence from (unintended) liberalization in Italy” – “Cannabis leggera e criminalità organizzata: prove della liberalizzazione (non intenzionale) in Italia”. Dalla ricerca, la prima di questo tipo nel nostro Paese, emerge che la legalizzazione della cannabis leggera in Italia ha ridotto nel giro di poco più di un anno la quantità di marijuana spacciata e i relativi ricavi delle organizzazioni criminali (qui lo studio completo).
La “liberalizzazione involontaria”
Vincenzo Carrieri e Francesco Principe, ai tempi dello studio in forza presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università degli Studi di Salerno, in collaborazione con Leonardo Madio, già nel Department of Economics and Related Studies dell’University of York (Inghilterra), hanno incrociato i dati forniti dalla polizia sui sequestri di cannabis illegale condotti a livello provinciale con le vendite di cannabis light registrate fino a marzo 2018 a partire dal dicembre 2016, ovvero dall’entrata in vigore della legge 242/2016 sulla canapa industriale che, a causa di un vuoto legislativo , ha dato origine a quella che nello studio viene definita “liberalizzazione involontaria” della canapa, portando alla regolare vendita del prodotto purché caratterizzato da una ridotta percentuale (tra lo 0,2% e lo 0,6%) di tetraidrocannabinolo o Thc, il principio psicoattivo.
Più cannabis shop, meno confische e arresti per droga
Lo studio ha preso in esame un periodo di tempo di 15 mesi, ma i dati più significativi sono quelli a partire dal maggio 2017, ovvero da quando è diventato disponibile sul mercato il primo raccolto successivo alla legalizzazione involontaria. “La ricerca – spiegano gli autori – ha dimostrato come nelle province con maggiore concentrazione di rivenditori di canapa legale ci sia stata, a parità di operazioni di polizia, una riduzione delle confische di prodotti stupefacenti e una riduzione del numero di arresti per reati di droga”. E ha messo in evidenza che, nel breve arco temporale considerato, la legalizzazione della cannabis light ha portato a una riduzione di circa l’11% dei sequestri di marijuana per ogni cannabis shop. Una percentuale che, tradotta in chili di cannabis illegale confiscata, sta a significare un calo dei sequestri di marijuana pari a 6,5 chili per ogni negozio specializzato in prodotti a base di cannabis. “La liberalizzazione involontaria della cannabis light – si legge nello studio – ha avuto un impatto anche sul numero di piante di cannabis illegali confiscate – 37 per ogni cannabis shop – e sulla riduzione dei sequestri di hashish, 8% per ogni cannabis shop”.
Criminalità, ricavi perduti per circa 200 mln euro l’anno
“Queste stime – si legge nello studio – consentono di calcolare le entrate perdute per le organizzazioni criminali. Considerando che il numero medio di cannabis shop a livello provinciale è di circa 2,76 e che il prezzo della marijuana è stimato in 7-11 euro al grammo, le nostre stime sulle 106 province considerate implicano che le entrate perdute a causa della liberalizzazione della cannabis light corrispondano – solo per quanto concerne la marijuana, escludendo l’hashish e le piante di cannabis illegali – a circa 200 milioni di euro all’anno”.
Ma l’effetto è sottostimato
Sono cifre che possono sembrare non molto significative, se si considera che in Italia il commercio illegale di marijuana e hashish comporta un giro d’affari da 3,5 miliardi di euro. I ricercatori precisano però che l’effetto reale potrebbe essere molto più vasto, dal momento che la marijuana sequestrata rappresenta solo una parte minoritaria di quella disponibile sul mercato nero.
Il “sostituto imperfetto”
Al contrario, spiegano gli autori dello studio, i risultati ottenuti in termini di ricavi perduti da parte della criminalità organizzata appaiono invece interessanti se si considera che la cannabis light è un “sostituto imperfetto” della cannabis illegale, poiché caratterizzata da “effetti ricreativi molto più bassi, dovuti alla percentuale minima di Thc in essa contenuta”, mentre il Thc presente nella marijuana da strada può arrivare a superare il 20%, con il noto “effetto sballo” che ne consegue. “Questi risultati – scrivono – supportano l’argomentazione secondo cui, anche in un breve periodo di tempo e con un sostituto imperfetto, la fornitura di droghe illegali da parte del crimine organizzato viene rimpiazzata dalla presenza di rivenditori ufficiali e legali”.
Effetto sostituzione
I ricercatori parlano di un “effetto di sostituzione” inatteso nella domanda tra cannabis light e cannabis illegale. Quali sono i motivi del successo della canapa leggera? Possono essere diversi: dal voler evitare effetti stupefacenti eccessivi, al preferire un prodotto dall’origine controllata. E, molto probabilmente, un ruolo di tutto rispetto è giocato dal non doversi rivolgere al mercato illegale per effettuare l’acquisto.
Fonte: peopleforplanet.it
da Redazione | 3 Settembre, 2019 | Cultura, Mondo, Normative
La Drug Enforcement Administration (DEA) ha annunciato l’intenzione di facilitare ed espandere la ricerca scientifica e medica sulla cannabis negli Stati Uniti.
L’annuncio dell’agenzia federale antidroga statunitense è arrivato lunedì 26 agosto, poche settimane dopo che una corte d’appello ha ordinato alla DEA di dare una risposta agli enti che avevano richiesto di effettuare ricerche scientifiche sulla cannabis medica. Infatti, l’annuncio della DEA è stata la conseguenza dell’appello del Scottsdale Research Institute dell’Arizona, che aveva presentato a giugno 2019 una sollecitazione alla DEA.
I ricercatori avevano lamentato il fatto che il monopolio della ricerca sulla cannabis rendesse difficile ottenere forniture di cannabis. Ad agosto 2016, La DEA aveva promesso che avrebbe esteso il programma di ricerca a più coltivatori. Ma questo non è mai avvenuto. Da quel momento i ricercatori hanno fatto causa all’agenzia federale. Prima dell’annuncio di lunedì infatti, la DEA aveva concesso l’autorizzazione federale per coltivare cannabis per uso scientifico e di ricerca solo all’Università del Mississippi. Ma negli ultimi due anni, il numero totale delle richieste per condurre ricerche sulla cannabis è aumentato di oltre il 40%, passando da 384 (gennaio 2017) a 542 (gennaio 2019).
“La DEA sta facendo progressi nel programma di registrazione di ulteriori coltivatori per la ricerca autorizzata a livello federale e collaborerà con altre agenzie federali competenti”, ha dichiarato Uttam Dhillon, amministratore delegato della DEA. “Supportiamo ulteriori ricerche sulla cannabis e i suoi derivati e crediamo che la registrazione di un numero maggiore di coltivatori consentirà ai ricercatori di avere accesso a una più ampia varietà di studi”.
Inoltre, sempre secondo la nota pubblicata dall’agenzia, alcuni estratti della cannabis non richiederanno più la registrazione presso la DEA per coltivare o produrre. L’Agricolture Improvement Act del 2018 (meglio conosciuto come Farm Bill del 2018) ha differenziato i termini “cannabis”(o marijuana) e “canapa” per uso industriale. Di conseguenza, la canapa e i preparati di cannabidiolo (CBD) e THC pari o inferiori ad un livello dello 0.3%, non sono sostanze controllate e di conseguenza non è richiesta una registrazione presso la DEA per quanto riguarda la coltivazione e la ricerca.
Fonte: www.weedworld.it
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