da Redazione | 21 Dicembre, 2019 | Notizie, Cultura, Mondo
Studio dopo studio viene dimostrato che la cannabis funziona come un trattamento efficace per il dolore cronico. Molti pazienti, grazie alla cannabis, sostengono di aver ridotto in modo significativo, se non del tutto, le loro prescrizioni di oppiacei con l’erba.
Ma la legalizzazione può combattere l’epidemia di oppioidi dilagante? E se così fosse, la legalizzazione ricreativa o medica avrebbe maggiore impatto sulla riduzione dei tassi di consumo di oppioidi?
C’è una risposta a queste domande. Secondo un nuovo studio, le leggi sulla marijuana ricreativa riducono l’uso di oppiacei più delle leggi sulla cannabis terapeutica.
Lo studio, condotto dall’assistente professore di giurisprudenza dell’Università dell’Alabama Benjamin McMichael e pubblicato sul Journal of Health Economics,ha scoperto che la legalizzazione di marijuana ricreativa e medica sono fortemente correlati alla riduzione dell’uso di oppioidi, e che quella ricreativa portano a maggiori riduzioni dell’uso di oppiacei poiché è più facile accedere all’erba ricreativa. In genere si ha meno accesso alla cannabis negli Stati Usa che consentono solo la marijuana medica.
“I risultati di questo studio suggeriscono che approvare le leggi sull’accesso alla cannabis riduce l’uso di oppioidi da prescrizione”, hanno concluso gli autori dello studio. “Mentre la cannabis può essere una droga che incoraggia l’uso di oppioidi in alcuni pazienti, a conti fatti, in generale, sia le leggi sull’accesso alla cannabis ricreativa che medica riducono l’uso di oppioidi.”
Come sono arrivati a questa conclusione gli autori dello studio? Innanzitutto, hanno misurato tutte le variabili rispetto all’equivalenza di un milligrammo di morfina o MME. Non tutti gli oppioidi sono creati uguali, alcuni sono relativamente deboli (ad es. Tramadolo) e altri possiedono potenze più forti della morfina (ad es. Fentanil). In altre parole, il MME sostanzialmente consente ai ricercatori di raggruppare tutte le vendite di farmaci oppioidi in un unico valore relativo.
Successivamente, gli autori hanno esaminato i dati sulle vendite di prescrizioni in tutti gli Stati degli Usa dal 2011 al 2018. I dati, che includevano 1,5 miliardi di vendite di prescrizioni individuali tra 10 milioni di singoli pazienti, rappresentavano il 90 percento di tutte le vendite di prescrizioni negli Stati Uniti. I ricercatori hanno quindi confrontato i dati sulle vendite di droga in ciascuno Stato con le leggi specifiche sulla cannabis di quello Stato.
Ecco cosa gli autori hanno scoperto. La legalizzazione della cannabis terapeutica riduce in media il volume delle prescrizioni di oppiacei del 4,2 percento. Nel frattempo, la legalizzazione della cannabis ricreativa riduce la prescrizione di oppiacei dell’11,8 percento, che è quasi tre volte più efficace della legalizzazione medica.
Uno sguardo più attento alle specialità mediche, ha mostrato che i primi cinque campi per la prescrizione della maggior parte degli oppioidi – chirurgia orale e maxillo-facciale, chirurgia ortopedica, medicina del dolore, medicina fisica e riabilitazione e medicina dello sport – hanno visto le maggiori riduzioni delle prescrizioni di oppioidi dopo che sono state approvate le riforme della cannabis. Quando sono state approvate le leggi sulla cannabis terapeutica, questi primi cinque campi hanno ridotto le loro prescrizioni di oppioidi del 6,9 per cento. Ma quando sono state approvate le leggi ricreative, questi campi hanno subito una notevole riduzione del 28,3 per cento delle prescrizioni di oppiacei.
Quest’ultimo studio fornisce ancora più prove per essere favorevoli alla cannabis, supportando l’idea che legalizzare l’erba riduce l’uso di oppioidi su tutta la linea.
Tuttavia, è bene ricordare uno studio pubblicato a giugno che affermava il contrario. Quello studio, condotto da Chelsea Shover alla Stanford University, ha sostenuto che la legalizzazione della marijuana non ha avuto alcun effetto sulla morte per overdose da oppiacei negli Stati con leggi tolleranti sulla cannabis. Ovviamente, i media hanno evidenziato la conclusione di questo studio e ci hanno marciato sopra, pubblicando titoli come “La marijuana medica non è più legata a un minor numero di decessi da oppiacei”, nonostante gli studi precedenti avessero raggiunto conclusioni diverse.
Quindi, cosa significa? I ricercatori di Stanford avevano ragione, e quelli come noi sostenitori della cannabis siamo stati ipnotizzati? Oppure gli studi sulla legalizzazione, che ora includono quelli di McMichael, stanno dipingendo un quadro manipolato?
“Non direi che il nostro studio confuta o supporta direttamente lo studio di Shover perché stiamo analizzando risultati diversi”, ha scritto McMichael a MERRY JANE in una e-mail. Lo studio di Stanford si è concentrato “sulle morti legate agli oppioidi, mentre esaminiamo le prescrizioni di oppioidi. Indirettamente, tuttavia, i nostri risultati non sono del tutto coerenti con quelli di Shover”.
McMichael ha osservato che lo studio di Stanford ha valutato solo gli effetti della legalizzazione della cannabis medica sulle morti per oppioidi a livello statale. Lo studio di McMichael, d’altra parte, ha esaminato i volumi di prescrizione di oppiacei a livello di singolo paziente, che ha fornito “un quadro più dettagliato della relazione tra le leggi sull’accesso alla cannabis e le prescrizioni di oppiacei rispetto a se avessimo usato dati a livello statale (o addirittura di contea).”
Indipendentemente dalle loro diverse metodologie e conclusioni, McMichael ha affermato che lo studio di Stanford fornisce argomenti positivi alla discussione sulla legalizzazione della cannabis. “Anche se credo che il nostro studio fornisca un quadro più sfumato dell’effetto delle leggi sull’accesso alla cannabis sulle prescrizioni di oppioidi rispetto allo studio di Shover per le morti legate agli oppioidi”. “Sono d’accordo con loro sul fatto che sono necessarie ulteriori ricerche … La letteratura esistente fino ad oggi giustifica l’investimento di risorse significative per rispondere a domande sull’uso medico della cannabis con maggior sicurezza”.
Fonte: droghe.aduc.it
da Redazione | 9 Dicembre, 2019 | Cultura, Notizie
Dai venditori ai coltivatori. Blitz della polizia in un’azienda agricola fuori provincia. Gli agenti, su input del questore Antonio Pignataro, hanno effettuato sequestri di infiorescenze di cannabis in una delle aziende agricole che forniscono i negozi di cannabis light. Il diktat del capo della polizia in provincia è Nessuna tregua all’attività di contrasto della commercializzazione di infiorescenze di cannabis promosse come legali.
I sequestri
Dopo i sequestri di prodotti all’interno dei cannabis shop che commercializzavano infiorescenze di cannabis e dopo le chiusure temporanee imposte dal questore, ora la polizia ha aperto un nuovo fronte nella lotta alla marijuana spacciata come legale. Con un decreto di perquisizione delegata del procuratore capo Giovanni Giorgio e del sostituto procuratore Enrico Riccioni, gli agenti sono risaliti all’origine della filiera procedendo al sequestro di campioni di infiorescenze all’interno di una azienda agricola che cura la coltivazione e la produzione di cannabis e che rifornisce i negozi. La cannabis «è considerata erroneamente una droga leggera ma è una vera e propria droga, induce dipendenza psichica alla stessa stregua dell’eroina e della cocaina», ha sottolineato il questore Pignataro evidenziando una forte indignazione anche per la «deprecabile propaganda pubblicitaria di infiorescenze di cannabis attraverso mezzi di informazione in cui si dedicano intere pagine alla commercializzazione della cannabis light come un alimento innocuo alla salute da acquistare e consumare normalmente».
La prevenzione
L’obiettivo della polizia, come sottolineato più volte dallo stesso questore, non è quello di porre ostacoli all’iniziativa economica per quanto riguarda la produzione della cannabis purché vengano osservate le norme stabilite dalla legge comunitaria 242/2016 che ha come scopo quello di rilanciare l’industria di settore. L’art. 2, rubricato Disposizione per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa, richiamato in molte delle confezioni in vendita, indica analiticamente tutti i numerosi settori nei quali la canapa coltivata può trovare utilizzazione ma si ribadisce, ancora una volta, che non prevede assolutamente come finalità della coltivazione l’ottenimento di un prodotto tecnico per ricerca o collezionismo o di vendita al pubblico di un prodotto non destinato al consumo umano. «La vendita e la detenzione ha rimarcato Pignataro – non vengono citate dalla legge anzi sono escluse. La Polizia di Stato di Macerata è costantemente impegnata nel contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti e prosegue nella sua intensa attività di controllo e repressione anche della commercializzazione della cosiddetta cannabis legale».
Fonte: corriereadriatico.it
da Redazione | 4 Dicembre, 2019 | Italia, Cultura, Notizie
«Vi chiedo scusa». Esordisce così, in un post su Facebook, il senatore Cinque Stelle Matteo Mantero. E le scuse sono rivolte a quelle 3mila aziende, tra produttori e distributori di cannabis light, rimaste in un limbo normativo dopo la sentenza della Cassazione di luglio che ha vietato la vendita di resine, olio e infiorescenze. Mantero era primo firmatario di due emendamenti alla legge di bilancio che avrebbero messo un po’ di ordine nel settore, dopo mesi di promesse e incontri con i parlamentari grillini. E invece ecco la sorpresa: gli emendamenti sono stati tutti ritirati in gran segreto nella seduta di sabato scorso in commissione Bilancio, senza che lo stesso Mantero fosse presente, denuncia lui. «Vi chiedo scusa per la maggioranza di cui faccio parte», dice il senatore grillino, «perché mentre il resto del mondo veleggia sulla rotta della legalizzazione della “marijuana” noi abbiamo paura di affrontare il tema della canapa industriale». E il motivo che ha spinto la maggioranza di governo a stralciare gli emendamenti senza neanche discuterli, come ammettono gli stessi parlamentari, è solo uno: la paura che, aprendo l’argomento cannabis light, Matteo Salvini e i colleghi sovranisti potessero cavalcarlo dalla loro parte sollevando l’ennesimo polverone politico. E così, meglio il silenzio. Mentre 3mila aziende e mille negozi sparsi in tutta Italia da mesi erano col fiato sospeso in attesa di tornare in attività, senza rischiare sequestri e denunce, ormai con l’acqua alla gola. E se le attività continuano a essere bloccate, il pericolo ora è la perdita di 12mila posti di lavoro. Tanti quanto l’Ilva e tutto il suo indotto, per intenderci.
«Nel corso degli incontri, i parlamentari Cinque Stelle ci avevano assicurato che si sarebbero impegnati per il rilancio dell’intero settore», denuncia Luca Fiorentino, 24enne fondatore e ceo di Cannabidiol Distribution, azienda torinese, tra le più grandi in Italia, che per prima ha inserito i prodotti a base di cannabis light nella grande distribuzione. Aprendo anche due negozi nel centro di Torino, che dopo svariati blitz e sequestri sono stati costretti a chiudere. Nel 2017 Cannabidiol contava 12 dipendenti, oggi si sono ridotti a quattro. E le aziende agricole che per loro producevano la canapa da mesi hanno già fermato le coltivazioni e chiuso baracca.
Dal 2016 in poi, con la “legge sulla canapa” voluta dagli stessi grillini, che ha legalizzato i prodotti con thc al di sotto della soglia dello 0,6%, il settore in Italia è esploso. Molti giovani, come Luca, hanno investito aprendo negozi e società. E soprattutto tante aziende agricole del Sud Italia si sono buttate a capofitto nella coltivazione della canapa, riuscendo a ottenere margini di guadagno che, rispetto ad esempio al pomodoro, possono essere 19 volte più alti. Un mercato che tra alimentari, cosmetica e fiori, valeva oltre 2 miliardi.
Dalla sentenza della Cassazione in poi ad oggi, 2.200 posti di lavoro tra quelli diretti e l’indotto sono già saltati. La decisione della Corte suprema, in realtà, passava la palla al Parlamento per regolamentare il settore una volta per tutte. Ma le camere hanno ignorato la sollecitazione. Il problema sta nella legge 242 del 2016, proposta dai Cinque Stelle, che venne approvata dopo che dal testo iniziale fu eliminato il comma che normava il mercato dei fiori di canapa, parlando di produzione ma non di commercializzazione. Da lì, i negozi e le coltivazioni di cannabis light si sono diffuse in tutta Italia in un vuoto normativo che, dopo la sentenza restrittiva della Cassazione, si è poi spostato nelle aule dei tribunali. Dove, come in un cortocircuito legislativo, da Milano a Genova i giudici si stanno esprimendo ormai a favore dei dissequestri, restituendo i prodotti ai negozianti.
Intanto, due leggi di modifica alla 242, una depositata dallo stesso Mantero e un’altra da Più Europa, alla fine non sono più state neanche discusse. Con Matteo Salvini che, da ministro dell’Interno, parla di «lotta alla droga» e annunciava: «Chiuderò tutti i negozi». Mentre in clima di incertezza normativa e di “caccia alle streghe”, il 90% dei tabaccai ha smesso di acquistare la cannabis light dai produttori per paura di incappare in procedimenti penali. E così il mercato si è bloccato.
Dopo la formazione del governo giallorosso, alcuni rappresentanti delle aziende italiane produttrici di canapa – che avevano provato anche a raccogliersi intorno a un’associazione di categoria – si sono fatti sentire con tutte le forze politiche della nuova maggioranza. Hanno contattato il ministro dello Sviluppo economico, il 5S Stefano Patuanelli; e poi hanno incontrato pure il Cinque Stelle Filippo Gallinella, presidente della Commissione Agricoltura della Camera. Ma l’atteggiamento, dopo la batosta elettorale dei 5S in Umbria, è cambiato. Con Salvini all’attacco, i grillini hanno preferito non stare più in prima linea su un argomento scottante come la cannabis light. Gallinella così ha smesso di rispondere ad aziende e associazioni del settore. E alla fine si è limitato ad approvare una risoluzione vaga e fumosa che – secondo la stessa Federcanapa – non fa altro che peggiorare la situazione attuale.
Finché, con i lavori della manovra in corso, Mantero ha presentato due emendamenti in cui si prevedeva anche una accisa di 10 centesimi per grammo sul prodotto. Ma già tra i Cinque Stelle erano emersi i primi malumori a farsi promotori di una iniziativa simile, per paura che l’ex alleato leghista potesse approfittarne per tonare sull’argomento e attaccarli.
Nei mesi scorsi, poi, i rappresentanti delle aziende della cannabis light hanno preso carta e penna e hanno scritto a Luigi Di Maio, a Nicola Zingaretti e pure al segretario della Cgil Maurizio Landini. Senza ricevere risposta da nessuno. Alla fine, si sono spostati pure più a sinistra, approfittando del fatto che il ministro della Salute, Roberto Speranza, fosse un rappresentante di LeU. Ma la risposta, anche qui, è stata sempre la stessa: meglio evitare per paura di fornire argomenti di propaganda a Salvini. E alla fine è arrivato pure il ritiro degli emendamenti.
E tutto il settore, che in questi mesi era rimasto appeso al Movimento Cinque Stelle, si è visto presentare l’amara sorpresa. Mantero promette già che i grillini tenteranno di ripresentare l’emendamento alla Camera. Ma sotto il suo post in poche ore si sono raccolti gli sfoghi di chi si è indebitato ed è stato costretto a chiudere negozi e a licenziare dipendenti e che sperava in una regolamentazione. «Con questa storia, vi state giocando una barcata di voti», scrive qualcuno. «I commercianti hanno aperto le loro attività in base a una legge, chiedendo prestiti e indebitandosi», dice Luca Fiorentino, «e ora invece veniamo trattati come spacciatori di droga».
Fonte: linkiesta.it
da Redazione | 29 Novembre, 2019 | Notizie, Cultura, Italia, Mondo
In Italia la cannabis terapeutica viene prescritta per curare e gestire i sintomi di molte patologie, tra cui il dolore nella sclerosi multipla o nelle lesioni del midollo spinale, il dolore cronico di origine neuropatica o oncologica, per il glaucoma e per la sindrome di Tourette. E ancora: per nausea causata da chemioterapia, radioterapia, terapie per l’Hiv, anoressia. Eppure, sebbene siano passati dieci anni dalla sua introduzione, ci sono ancora molte difficoltà per l’accesso al farmaco, dalla prescrizione da parte del medico alla possibilità di reperirla in farmacia. Se ne è parlato al 39esimo Congresso nazionale della Società italiana di farmacologia (Sif), tenuto nei giorni scorsi a Firenze, durante il quale è emerso come permanga ancora oggi una alta variabilità tra le farmacie, anche della stessa Regione, nella preparazione galenica del prodotto finale. Sebbene infatti esistano linee guida ministeriali, infatti, quello che ancora manca è uno standard di produzione per cui il rapporto tra i due componenti principali, ossia il Thc e il Cbd, sia sempre lo stesso. Ma chi può prescrivere la cannabis terapeutica e dove può essere reperita? E ancora: come si assume? Per fare un po’ più di chiarezza su queste e altre domande, ecco un vademecum con tutte le informazioni da sapere, stilato con l’aiuto di Alfredo Vannacci, professore associato di Farmacologia e Tossicologia dell’Università di Firenze e membro della Società italiana di farmacologia.
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1. Per il trattamento di quali patologie è stata autorizzata?
“I derivati della cannabis non sono allo stato attuale una vera e propria terapia farmacologica, non hanno uno specifico bersaglio molecolare e non curano una malattia, nel senso in cui generalmente si intende l’azione di un farmaco convenzionale”, racconta Vannacci. “Sono invece a tutti gli effetti prodotti fitoterapici ad azione sintomatica potenzialmente utili in diversi quadri patologici”. In particolare, prosegue l’esperto, il loro utilizzo è autorizzato per il trattamento del dolore cronico (oncologico, neuropatico o associato a spasmi muscolari in patologie neurologiche), per il controllo di nausea e vomito da chemioterapici, per la cachessia e l’anoressia causate da tumori o HIV, per il controllo dei movimenti muscolari involontari in alcune patologie neurologiche e per la riduzione della pressione endooculare nel glaucoma. “In tutti questi casi – avverte l’esperto – non deve essere utilizzata come prima scelta, ma solo in caso di fallimento (o eccessivi effetti avversi) della terapia farmacologica standard”.
2. Da dove proviene?
I derivati della cannabis disponibili in Italia provengono sia dall’estero che da una produzione nel nostro Paese. “La materia prima di provenienza estera è stata la prima ad essere disponibile in Italia, e si tratta attualmente di prodotti provenienti soprattutto dall’Olanda, con proporzioni diverse di principi attivi”, spiega Vannacci. “Più recentemente è stata introdotta la materia prima italiana, realizzata ad opera dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze e nota con la sigla FM2”.
3. Chi la può prescrivere e dove si recepisce?
Le preparazioni a base di cannabis possono essere prescritte da qualsiasi medico abilitato, mediante prescrizione magistrale non ripetibile (Rnr). Tuttavia, se vengono prescritte a carico del Ssn, a seconda della Regione in cui si è residenti, è possibile che solamente alcuni medici o alcune strutture siano abilitati a prescriverla. “C’è da dire che nella nostra esperienza il loro utilizzo avviene soprattutto in ambiente ospedaliero da parte di reumatologi e terapisti del dolore, specialmente anestesisti e rianimatori”, spiega Vannacci. “Una volta ricevuta la prescrizione, la preparazione magistrale può essere fatta preparare in qualsiasi farmacia dotata di un laboratorio di galenica”.
4. Come si prepara e come si ottiene dal farmacista?
Le farmacie, prosegue l’esperto, non possono distribuire la cannabis direttamente nei flaconi originali ottenuti dai produttori. Il farmacista, quindi, può dispensare la cannabis al paziente solo dopo averla ripartita nelle dosi indicate in ricetta. “Non è possibile dare più cannabis di quella prescritta dal medico e non è possibile ripartire la cannabis in dosi diverse da quelle indicate in ricetta”, sottolinea Vannacci.
5. Come si assume?
“Le preparazioni possibili sono molte, ma allo stato attuale quelle principalmente utilizzate sono le cartine per decozione in tisana e le cartine per vaporizzazione mediante vaporizzatori”, spiega l’esperto. Di recente, alcuni medici preferiscono prescrivere l’estratto di cannabis in olio di oliva, in modo che possa essere assunto in gocce, ma, riferisce Vannacci, la sua azione è al momento discussa.
6. Quali sono i livelli di Thc e Cbd raccomandati?
I rapporti tra Thc e Cbd cambiano a seconda della materia prima di partenza: esistono prodotti con rapporto Thc : Cbd 1:1, altri con rapporto 20:1 a favore del Thc e altri con rapporto 1:9 a favore del Cbd. “Ovviamente gli effetti terapeutici sono differenti”, continua l’esperto, “ma la attuale ricerca sulle prove di efficacia non è ancora in grado di stabilire se esista effettivamente un rapporto ideale per le diverse indicazioni”.
7. Quali sono i suoi principali effetti?
L’effetto principale è quello analgesico, unito a un effetto miorilassante. Inoltre, sembra essere piuttosto rilevante anche l’effetto ansiolitico, che sarebbe soprattutto a carico della componente Cbd. “Oggi non esistono piani terapeutici basati sulle prove di efficacia per le varie patologie, anche se appare plausibile che indicazioni diverse possano giovarsi di preparazioni con una proporzione differente dei principi attivi”, spiega Vannacci. In linea generale, suggerisce l’esperto, indicazioni quali anoressia e nausea/vomito necessitano di dosi più basse (soprattutto di Thc), dosi maggiori per gli spasmi muscolari e dosi ancora più alte, ma variabili da persona a persona, per la terapia del dolore. “Non è poi da sottovalutare il fatto che le concentrazioni di principi attivi sono molto variabili e risentono anche della preparazione, del tempo di infusione, della temperatura e delle modalità di assunzione”, spiega Vannacci.
8. Ci sono limiti di età?
Per l’assunzione della cannabis terapeutica non ci sono limiti di età definiti. “Ma ovviamente l’utilizzo nei pazienti pediatrici e negli adolescenti deve essere condotto con estrema cautela”, spiega Vannacci. Come ricorda l’esperto, inoltre, di recente un farmaco a base di Cbd è stato approvato proprio per l’utilizzo in alcune forme di epilessia infantile e dovrebbe a breve essere disponibile anche in Italia. “I derivati della cannabis – avverte Vannucci – non dovrebbero essere usati in gravidanza e allattamento, dal momento che ci sono dimostrazioni del passaggio dei principi attivi attraverso la placenta e nel latte materno”.
9. Quali sono gli effetti collaterali?
Una dose eccessiva di Cannabis può causare uno stato depressivo o ansioso e può provocare attacchi di panico o psicosi. “Nella nostra esperienza gli effetti avversi non sono molto frequenti e sono generalmente lievi, tuttavia possono manifestarsi disturbi soprattutto a carico del sistema nervoso (disturbi dell’umore, stordimento, stato soporoso), allergie o reazioni gastrointestinali”, spiega Vannacci.
10. Può dare dipendenza?
“Come è noto, la cannabis stimola il sistema cerebrale di gratificazione, per cui il rischio che possa indurre un abuso è sempre presente”, spiega Vannacci. Tuttavia, se viene utilizzata con le modalità e le dosi previste, in genere non si verificano problemi. “Sicuramente – conclude l’esperto – i preparati a base di Cannabis sono controindicati in pazienti con disturbi psichiatrici e in individui con una storia pregressa di tossicodipendenza e/o abuso di sostanze psicotrope e/o alcol”.
Fonte: repubblica.it
da Redazione | 26 Novembre, 2019 | Cultura, Mondo
L’uso durante la gravidanza della cannabis e l’esposizione al suo principale componente psicoattivo – il THC – modifica il sistema dopaminergico della prole e la renda suscettibile ai suoi effetti psicotici durante la preadolescenza.
A rivelarlo è stato un nuovo studio effettuato dai ricercatori dell’Università di Cagliari e guidato da Miriam Melis, in collaborazione con l’Accademia delle Scienze Ungheresi a Budapest e l’Università del Maryland a Baltimora.
Questo studio, che esce oggi sulla prestigiosa rivista internazionale “Nature Neuroscience“, grazie a un approccio multidisciplinare ha svelato importanti modificazioni delle aree cerebrali responsabili della gratificazione nei giovani ratti, i quali mostrano una maggiore vulnerabilità agli effetti di una sola esposizione al THC a un’età in cui i giovani cominciano a sperimentarla.
Lo studio, iniziato nei laboratori del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Cagliari nel 2014, ha visto successivamente il coinvolgimento dei due centri di ricerca internazionali ed è finanziato dal prestigioso ente americano National Institute on Drug Abuse: mostra come l’uso di una droga considerata “leggera”, se assunta durante la gravidanza modifichi la regione cerebrale importante per le emozioni, il piacere e diverse funzioni cognitive, così come fanno cocaina e l’alcol. Un’evidenza molto importante perché – con la crescente legalizzazione della cannabis e la diffusa percezione di una sua sostanziale innocuità – la cannabis è la droga illegale più usata nel mondo dalle donne incinte, a volte assunta come rimedio per le nausee mattutine o per l’ansia.
Gli autori dello studio sperano quindi che la loro scoperta aiuti il processo di consapevolezza riguardo le conseguenze negative sullo sviluppo del sistema nervoso centrale del bambino.
Nello stesso studio, gli autori sono stati in grado di correggere le modificazioni cerebrali, a livello sia cellulare sia comportamentale, riuscendo a proteggere i piccoli esposti durante la gestazione al THC dai suoi effetti detrimenti con un farmaco che attualmente è approvato dalla agenzia americana del farmaco (la Food and Drug Administration) in diversi studi clinici per il trattamento della schizofrenia, del disturbo bipolare e dei disturbi psichiatrici associati all’uso di cannabis.
Fonte: altramantova.it
da Redazione | 25 Novembre, 2019 | Cultura, Mondo
Il tetraidrocannabinolo (THC) è il principale costituente psicoattivo della cannabis, quello responsabile degli effetti sul cervello e, in particolare, sulle aree della memoria, del pensiero, della concentrazione, del movimento, della coordinazione, della percezione sensoriale e temporale, nonché del piacere.
A partire dal primo gennaio 2018 in California (Stati Uniti) è diventato legale vendere e consumare cannabis a scopo ricreativo, e non solo medico.
Nonostante il largo uso della cannabis, ancora non si conosce il meccanismo d’azione del THC, né in campo medico-terapeutico né in caso di abuso, così come non sono del tutto chiari i suoi effetti collaterali.
Valentina Vozella è a Irvine, California, per studiare il ruolo del THC sul sistema cognitivo degli adolescenti che iniziano a fumare marijuana attorno ai 12-13 anni e per indagare gli effetti a lungo termine di tale assunzione.
Come agisce il THC nel nostro cervello?
Agisce in modo molto simile ai cannabinoidi prodotti naturalmente dal nostro corpo. Il nostro organismo, infatti, ha una sorta di cannabis endogena rappresentata dagli endocannabinoidi: si tratta di neurotrasmettitori di natura lipidica che si legano a recettori presenti in alcune aree del cervello (quelle associate alla cognizione, memoria, appetito, piacere, alla coordinazione e percezione del tempo) e, così facendo, provocano tutta una serie di effetti.
Il THC si lega agli stessi recettori degli endocannabinoidi e, attivandoli, influenza le stesse zone del sistema nervoso. Tuttavia, non ci sono studi condotti in maniera scientifica sui meccanismi d’azione o sulle funzioni svolte dal THC, nemmeno nei casi in cui viene usato per trattare lo stress post-traumatico o come terapia del dolore.
Il mio lavoro è focalizzato all’adolescenza perché è la fase in cui il nostro cervello inizia a svilupparsi e costruire connessioni e, a fronte delle nuove leggi, è importante capire gli effetti, anche collaterali, del THC sul nostro corpo a distanza di anni.
Come valutate questi effetti?
Abbiamo eseguito una serie di test comportamentali su modelli animali in età adulta, dopo aver somministrato per iniezione il THC durante la loro fase di adolescenza. Si tratta di un trattamento cronico, fatto per due settimane, e con la sola molecola attiva, in modo da escludere tutti gli effetti delle centinaia di componenti chimiche presenti nella cannabis. Attraverso i test volevamo valutare lo sviluppo e il grado di eventuali deficit o compromissioni cognitive in seguito all’assunzione di THC. Per fare ciò, il primo giorno abbiamo presentato ai topi determinati oggetti in un certo spazio e successivamente, il secondo giorno, alcuni di questi oggetti sono stati spostati. Se l’animale inizia a esplorare con curiosità gli oggetti spostati lasciando perdere quelli immutati, allora vuol dire che sta bene e si ricorda che in certe posizioni non c’era nulla. Se invece esplora alla stessa maniera sia gli oggetti spostati che quelli immutati, allora c’è qualcosa che non va perché, evidentemente, entrambi rappresentano un elemento di novità e non c’è stata costruzione di memoria.
Abbiamo visto che con alte dosi di THC somministrate cronicamente i topi non distinguono gli elementi nuovi da quelli vecchi e ciò vuol dire che c’è una significativa compromissione del sistema cognitivo in età adulta.
Ci sono altri organi coinvolti, oltre al cervello?
Abbiamo cercato sviluppare un metodo per misurare il contenuto THC in un certo tessuto proprio per vedere dove si distribuisce, dove esercita la sua funzione e, ovviamente, qual è la sua funzione in quel distretto. Che raggiunga il cervello è sicuro, visti gli effetti cognitivi, ma probabilmente non è l’unico bersaglio.
Oltre al cervello abbiamo studiato il tessuto adiposo, dato che i cannabinoidi sono molecole lipidiche, e il sangue, che è il tessuto più semplice e quello più facile da testare anche nell’uomo. Nell’uomo, infatti, non è possibile sapere quali sono i livelli di THC che raggiungono il cervello ma si potrebbe fare una stima sulla base di quelli misurati nel sangue. E da qui capire quali sono gli effetti dose-dipendenti sia a livello acuto sia a lungo termine.
Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
Il prossimo passo è indagare la relazione tra THC e comportamento alimentare, dato che dopo aver fumato marijuana si ha un aumento della fame ed è noto che il sistema endocannabinoide è coinvolto nella regolazione dell’appetito. Diversi anni fa era stato introdotto sul mercato un farmaco, chiamato rimonabant, che agiva inibendo i recettori degli endocannabinoidi e veniva indicato per i trattamenti contro l’obesità. Purtroppo il rimonabant aveva gravi effetti collaterali per cui è stato ritirato dal mercato, ma il meccanismo d’azione è interessante e l’attenzione per l’uso della cannabis in casi di disfunzioni alimentari è alto.
Questo lavoro verrà portato avanti dai miei colleghi della University of California, mentre io da pochissimo ho iniziato a lavorare presso l’azienda Allergan dove mi occupo sempre di sistema nervoso ma a livello più applicativo. In pratica, a partire da una serie di molecole conosciute, vogliamo cercare di capire se possono essere usate per trattare specifiche condizioni o patologie, nello specifico io mi occupo di depressione.
Fonte: oggiscienza.it
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