Quando Henry Ford usava la canapa per l’auto del futuro

Quando Henry Ford usava la canapa per l’auto del futuro

Un libro, uscito recentemente, rievoca la geniale Hemp Car del 1941 ed esamina l’utilizzo della cannabis nel mondo dell’automotive.

“Perché consumare foreste che hanno impiegato secoli per crescere e miniere che hanno avuto bisogno di ere geologiche per stabilirsi, se possiamo ottenere l’equivalente delle foreste e dei prodotti minerari dall’annuale crescita dei campi di canapa?”. Non è una visione di un ultrà dell’agricoltura sostenibile o la speranza di un (ex) figlio dei fiori, ma il pensiero di Henry Ford, il genio che fondò la Ford Motor Company. Un pensiero che venne concretizzato nel 1941 dopo dodici anni di studio: la Hemp Car, prototipo costruito principalmente di fibre di cellulosa biodegradabili derivate da canapa (all’80%), sisal e paglia di grano, ma – soprattutto – alimentata per mezzo di etanolo di canapa. Una “bio vettura” funzionante, clamorosamente in anticipo sui tempi.

Il geniale prototipo della Hemp Car risale al 1941

IL LIBRO

L’utilizzo della canapa nell’automotive è uno dei tanti argomenti di un interessante libro, uscito recentemente per Diakros Edizioni: Cannabis. Il futuro è verde canapa scritto da Mario Catania, giornalista e tra i massimi esperti in Italia sul tema. C’è un intero capitolo dedicato alle possibilità offerte da una pianta soprannominata “maiale vegetale” per la versatilità di uso: “Dall’auto di Ford alla canapa nelle auto di oggi”. Si scopre che la Hemp Car era biodegradabile e molto più leggera di un’auto con carrozzeria d’acciaio, a parità di dimensioni. Inoltre per dimostrare la validità del progetto, l’imprenditore statunitense realizzò uno spot in cui colpiva ripetutamente la vettura con un martello da incudine senza che si scalfisse o graffiasse minimamente. Era il suo sogno: un modello “che uscisse dalla terra”. Oggi, la fibra di canapa – spesso mixata con fibra di vetro, kenaf e lino – viene utilizzata per realizzare pannelli compositi per automobili. Uno degli esempi più recenti è quello della Porsche 718 Cayman ma anche Polestar sta lavorando attivamente sul tema.

Un distributore di biogas di canapa, negli Stati Uniti

CARBURANTE

Ma la Hemp Car era rivoluzionaria anche per la propulsione. Già nel 1925, Ford in un’intervista al New York Times lanciò una provocazione. “Il carburante del futuro sta per venire dal frutto, dalla strada o dalle mele, dalle erbacce, dalla segatura, insomma, da quasi tutto. C’è combustibile in ogni materia vegetale che può essere fermentata e garantire alimentazione. C’è abbastanza alcool nel rendimento di un anno di un campo di patate utile per guidare le macchine necessarie per coltivare i campi per un centinaio di anni”. Non era una boutade: la vettura era alimentata da etanolo di canapa (il carburante raffinato dai semi della pianta), quindi una “zero emissioni” ante litteram. Il conflitto mondiale fermò una possibile produzione in serie e Ford morì nel 1947: logico un rallentamento del progetto che uscì definitivamente di scena nel 1955 quando la coltivazione della canapa venne proibita negli Usa. Alcuni storici sostengono che la decisione sia stata sostenuta pesantemente dalla lobby delle industrie petrolifere, che temevano la produzione di un carburante alternativo.

OLIO

In un altro capitolo del libro (“Canapa come carburante per ridurre la dipendenza da energie fossili”) si ragiona sull’olio di semi di canapa che può essere trasformato in biodiesel per le vetture. È stato calcolato che la canapa possa produrre più di 800 litri di biodiesel per ettaro all’anno, una resa maggiore rispetto ad altre colture; e inoltre consente di produrre anche metanolo, etanolo, biogas. Quindi perché il biodiesel della canapa non viene usato? Fondamentalmente per il prezzo, visto che le produzioni di olio di canapa sono basse. Tuttavia, visto il numero sempre maggiore di Paesi che si stanno rendendo conto del potenziale della canapa industriale facendo aumentare le coltivazioni, i prezzi di questo biocarburante potrebbero diventare interessanti. Maurizio Bertera ( Gazzetta.it )

È il momento di regolarizzare la cannabis

È il momento di regolarizzare la cannabis

I tabaccai sono rimasti aperti per non mettere in crisi i tabagisti. Ma l’epidemia ha dimostrato che serve un nuovo approccio alle sostanze psicotrope meno dannose.

 

La regolamentazione legale della cannabis può contribuire a dare un futuro all’Italia in questo tragico momento». Con questo appello il 20 aprile scorso sono stati convocati i primi stati generali della cannabis – rigorosamente online – per tornare a proporre all’Italia un’opportunità di giustizia sociale ed economica, oltre che di libertà di scelta.

Qualche settimana fa l’Economist aveva sorriso notando che in Italia e in Spagna, due tra i paesi maggiormente colpiti dal Coronavirus, il lockdown non aveva imposto la chiusura dei tabaccai. È ampiamente dimostrato che fumare tabacco sia un’abitudine nociva alla salute, e per questo scoraggiata da una serie di leggi e regole internazionali che ne sconsigliano il consumo, vietandone la pubblicità e la vendita ai minorenni. In quasi tutti i paesi del mondo i pacchetti di sigarette, tabacco o sigari presentano messaggi intimidatori circa la mortalità causata dal fumare – e indubbiamente fumare non fa bene alla salute, anzi! Malgrado tutto ciò, però, oltre un miliardo di persone nel mondo continuano a fumare e le stime internazionali ritengono che quasi 900 mila persone muoiano annualmente per patologie causate o connesse col fumo.

Ma allora, se è così pericoloso e così sconsigliato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché è stato deciso di far restare aperti tabaccai in un momento di grave crisi sanitaria? La risposta è semplice: perché incidere sullo stress creando (anche) l’astinenza dal fumo sarebbe stato un ulteriore appesantimento delle quarantene. Ma le astinenze non si fermano alla nicotina, interessano tante altre sostanze, legali e non, che di questi tempi, se consumate consapevolmente, potrebbero accompagnare il distanziamento sociale.

È notorio che la cannabis non ha mai ucciso nessuno in nessuna parte del mondo, anzi la crescente letteratura scientifica a favore del suo impiego terapeutico ha portato l’Oms a raccomandarne la riclassificazione all’interno del sistema internazionale di controllo delle sostanze psicotrope. Riclassificazione che l’Italia ha già effettuato da quando la produce presso lo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze per cercare di soddisfare la domanda di prodotti cannabinoindi prescritti dai medici italiani.

E allora perché nel momento in cui si consente il proseguimento di un’abitudine molto rischiosa come il fumo del tabacco non si sono allentate le proibizioni relative, se non altro, alla produzione domestica di cannabis per accompagnare il lockdown con l’assunzione di principi attivi che possono rilassare in situazioni di stress dovuto alla monotonia quotidiana o alla grande incertezza per il futuro? Si tratterebbe di una misura di “buon senso” da far trapelare – tra l’altro in parte già suggerita recentemente dalla Corte di Cassazione – che un domani, “quando tutto questo sarà finito”, potrebbe evolversi in una misura di buon governo che ci potrebbe condurre alla regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio di una pianta dalla straordinaria penetrazione in tutti gli strati sociali e dalle numerose applicazioni terapeutiche.

In attesa che il Parlamento discuta di legalizzazione della cannabis, partendo dalla proposta di legge “Legalizziamo.it” presentata nel 2016 alla Camera, il 20 aprile è partita la mobilitazione #IoColtivo di MeglioLegale.it, DolceVita.it Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani per far crescere una piantina in casa e la speranza riformatrice nel palazzo.

Cannabis legale e razzismo in Usa. Rapporto della ACLU

Cannabis legale e razzismo in Usa. Rapporto della ACLU

Il 20 aprile, o il 4/20, è un giorno in cui molte persone in tutto il mondo celebrano la cultura della marijuana raccogliendo le piante, ascoltando musica e gustando cibo.
Ma l’American Civil Liberties Union (ACLU) sta usando la festa non ufficiale della cannabis per attirare l’attenzione su un problema molto serio: nonostante il crescente numero di Stati che stanno legalizzando, le persone di colore hanno ancora molte più probabilità di essere arrestate per marijuana rispetto ai bianchi, anche se i tassi di consumo sono praticamente identici tra le razze.
In un nuovo rapporto pubblicato lunedì 20 aprile, l’ACLU fa sapere che mentre in generale gli arresti sono molto in calo negli Stati che hanno posto fine al divieto, in questi stessi luoghi persistono disparità razziali negli arresti. Nel frattempo, alcuni Stati dove è ancora illegale stanno arrestando i neri per la cannabis con un tsso percentuale dieci volte maggiore dei bianchi.

Ecco i principali risultati del rapporto – “Un racconto di due Paesi: arresti mirati a livello razziale nell’era della riforma della marijuana” – che fa seguito a uno studio analogo pubblicato dall’organizzazione nel 2013 e che aveva attirato l’attenzione sugli arresti ingiusti in un momento in cui la legalizzazione stava appena iniziando a diventare una questione importante nella politica americana

Gli arresti di marijuana sono ancora diffusi negli Stati Uniti
Gli arresti per marijuana a livello nazionale sono diminuiti del 18% dal 2010, ma dal 2015 si è registrato un aumento, anche se più Stati stanno attuando politiche di legalizzazione o di depenalizzazione.
Gli arresti per cannabis hanno rappresentato il 43 percento di tutti gli arresti per droga nel 2018, l’anno più recente del rapporto, e la stragrande maggioranza di quegli arresti – l’89,6 percento – erano solo per possesso.

Le disparità razziali estreme persistono nell’applicazione delle leggi sulla marijuana
Complessivamente, i neri hanno 3,64 volte più probabilità rispetto ai bianchi di essere arrestati per possesso di marijuana, anche se i tassi di consumo sono comparabili. La tendenza verso la legalizzazione e la depenalizzazione non ha ridotto le tendenze nazionali in termini di applicazione differenziata e, in alcune parti del Paese, sono peggiorate.
Gli afroamericani hanno maggiori probabilità di essere arrestati per possesso di marijuana in ogni singolo Stato del paese.
“Le disparità razziali negli arresti per possesso di marijuana esistono in tutto il Paese, in tutti gli Stati, nelle contee grandi e piccole, urbane e rurali, ricche e povere, e con grandi e piccole popolazioni nere”, afferma il rapporto“In effetti, in ogni Stato e in oltre il 95 percento delle contee con oltre 30.000 persone in cui almeno l’1 percento dei residenti sono neri, questi ultimi vengono arrestati con percentuali maggiori rispetto ai bianchi”.

Gli arresti per marijuana diminuiscono dopo la depenalizzazione, ma diminuiscono più bruscamente negli Stati in cui la legalizzazione è totale
Non sorprende il fatto che la cannabis legalizzata abbia prodotto una riduzione degli arresti per possesso di marijuana, ma l’ACLU ha scoperto che questi stessi arresti avevano mostrato una tendenza al ribasso anche prima della fine del divieto.
Gli Stati con politiche meno complete che semplicemente depenalizzano il possesso, mostrano anch’essi una riduzioni degli arresti, ma non tanto quanto in quei luoghi in cui il divieto è del tutto finito. I tassi di calo di arresti per possesso di cannabis sono all’incirca otto volte più alti negli Stati in cui si è depenalizzato rispetto a quelli che invece hanno legalizzato, sebbene siano inferiori rispetto a quegli Stati in cui c’è ancora un totale divieto.
Quando si tratta di arresti per vendita di marijuana, gli Stati che hanno legalizzato hanno avuto un calo dell’81,3 per cento tra il 2010 e il 2018, mentre gli Stati che hanno depenalizzato hanno subito una riduzione del 33,6 per cento nello stesso periodo.

Le disparità razziali persistono sia negli Stati che hanno legalizzato che in quelli che hanno depenalizzato
Anche se gli arresti complessivi per marijuana sono in calo negli Stati che hanno legalizzato o depenalizzato, i neri hanno ancora molte più probabilità di essere beccati per la cannabis rispetto ai bianchi. “In ogni stato che ha legalizzato o depenalizzato il possesso di marijuana, i neri hanno ancora più probabilità di essere arrestati per possesso rispetto ai bianchi”, ha rilevato l’ACLU.
“La maggior parte delle giurisdizioni che hanno applicato una politica progressiva sulla marijuana non sono riuscite a farlo anche in termini di giustizia razziale”, dice il rapporto. “In quanto tale, sebbene la legalizzazione e la depenalizzazione sembrino ridurre il numero complessivo di arresti per possesso di marijuana sia per i bianchi che per i neri, tali leggi non hanno sostanzialmente ridotto, e tanto meno eliminato, i tassi di arresti significativamente più elevati dei neri”.

Mentre in media gli Stati legalizzatori hanno disparità razziali più basse per gli arresti di possesso di marijuana rispetto a quelli dove c’è stata solo la depenalizzazione o in cui il divieto è pienamente in vigore, Maine e Massachusetts – che hanno entrambi votato per legalizzare la cannabis nel 2016 – hanno avuto disparità razziali maggiori nel 2018 rispetto a quanto avessero registrato nel 2018-2010.
“L’unica scoperta comune ad ogni Stato e nella stragrande maggioranza delle contee, è che i neri hanno maggiori probabilità di essere arrestati per possesso di marijuana rispetto ai bianchi, indipendentemente dal fatto che il possesso sia illegale, legale o depenalizzato nello stesso Stato”, conclude il rapporto.
L’ACLU ha anche riferito che gli scarsi dati della polizia rendono difficile comprendere appieno l’impatto ingiusto dell’applicazione delle leggi sulla marijuana attraverso le linee razziali. Ad esempio, i numeri di arresti dell’FBI non fanno distinzioni tra i latini e le altre razze, non mettendo in risalto il particolare impatto che il divieto ha sui latini e sui neri.

Insieme al rapporto, l’ACLU ha lanciato uno strumento online che rende facile per le persone vedere quanto siano discriminatorie le pratiche di applicazione delle leggi sulla marijuana nei propri Stati.
Il Montana è il peggiore, con i neri che hanno 9,6 volte più probabilità di essere arrestati per marijuana rispetto ai bianchi. Il Kentucky non è molto indietro con un tasso del 9,4.
In Colorado, lo Stato con il tasso meno discriminatorio, gli afroamericani hanno ancora 1,5 volte più probabilità di essere beccati per la cannabis rispetto ai bianchi.

Analizzando a livello di contee, l’ACLU ha scoperto che anche all’interno degli Stati ci sono grandi differenze nel modo in cui vengono applicate le leggi sulla cannabis.
Nella contea di Franklin, nel Massachusetts, una persona di colore ha 117 volte più probabilità di essere beccata per possesso di marijuana rispetto a una persona bianca.
“Gli Stati Uniti hanno intrapreso una guerra decadente, devastante, lunga decenni contro la droga, inclusa la marijuana, in specifiche comunità. Coinvolgendo centinaia di migliaia di persone ogni anno – milioni ogni decennio – per reati da marijuana, questa campagna razzista ha causato danni profondi e di vasta portata alle persone arrestate, condannate e/o incarcerate per questi reati”, ha detto l’ACLU. “Tale danno non può essere annullato, ma come Paese possiamo riconoscere, riparare e ricostruire in modo che il nostro futuro non assomigli al nostro passato proibizionista.”

Guardando al futuro, l’organizzazione raccomanda ai governi federali e statali di legalizzare la marijuana, ma che non si fermino solo qui. Oltre a mandar via i precedenti pregiudizi e garantire clemenza alle persone ancora incarcerate per i cambiamenti delle leggi sulla cannabis, l’ACLU sta sollecitando ché i nuovi mercati legali siano equi ed accessibili alle persone delle comunità che sono state maggiormente danneggiate dalla guerra alla droga.

“La domanda non è più se gli Stati Uniti debbano legalizzare la marijuana (che sta già accadendo) ma se la legalizzazione della marijuana riguarda anche l’equità razziale (che dovrebbe esserlo). Inoltre, non si tratta più di stabilire se tutti i livelli di governo dovrebbero reindirizzare le risorse prima utilizzate per perseguire la marijuana verso investimenti in sanità pubblica e politiche di collaborazione con le varie… ma che si dovrebbe stabilire”, afferma il rapporto.
“Piuttosto, la domanda è: quando gli Stati legalizzano, come possono farlo con una giustizia razziale sì da affrontare la molteplicità di danni che sono stati selettivamente messi in atto contro le comunità di Black e Latin per decenni?”.
Sebbene gli oppositori della legalizzazione della marijuana abbiano indicato dati precedenti che mostravano disparità razziali in corso nel post-divieto, e cos’ argomentare contro il cambiamento di politica, l’ACLU è molto chiara sul fatto che il proprio nuovo rapporto non dovrebbe essere usato per spingere ad una criminalizzazione continua.
“In breve, la legalizzazione da sola significa che vengono arrestati meno neri. Al contrario, proibizione significa più – molte, molte più persone di colore che vengono arrestate, incarcerate, condannate”, ha scritto in una E-mail Ezekiel Edwards, autore del rapporto e direttore del Progetto di riforma del diritto penale per l’ACLU. “Sarebbe quindi sbagliato suggerire che la legalizzazione serve ad alleviare gli impatti negativi della criminalizzazione della marijuana”.
Il rapporto ha anche messo in guardia dal fermarsi alla semplice depenalizzazione del possesso di cannabis, una politica che alcuni oppositori della legalizzazione sostengono come alternativa tra l’incarcerazione e un mercato commerciale della marijuana, sottolineando che ci sono “più persone di colore che vengono arrestate in Stati che depenalizzano rispetto a quelli che hanno legalizzato“.
Il rapporto infine ha rilevato che “la legalizzazione da sola non affronta le disparità razziali negli arresti per marijuana, né fa raggiungere l’equità razziale”.
È cruciale – sostiene Edwards – che gli Stati “concenttrino la legalizzazione sulla giustizia razziale”.
“Ciò significa non solo includere una legislazione sull’equità per le comunità direttamente danneggiate dal proibizionismo, ma anche far s’ che la legalizzazione sia legata al cambiamento del modo in cui i dipartimenti di polizia trattano le comunità di colore”. “Se la marijuana viene legalizzata senza ridurre la profilazione razziale e le inutili molestie e incarceramenti delle persone a causa del colore della loro pelle o del quartiere in cui vivono, ci sarà un calo degli arresti per marijuana ma nessun impatto tangibile sulle disparità razziali di quegli arresti o su altri tipi di arresti per altri piccoli reati per i quali si nota che la polizia tratta sempre le persone in modo diverso in base alla razza”.

In viaggio con 150 kg di cannabis, test per sapere se è “light”

In viaggio con 150 kg di cannabis, test per sapere se è “light”

Il sequestro risale a qualche settimana fa quando due 25enni sono stati fermati vicino alla frontiera di Ponte Tresa. Ora un’azienda specializzata dovrà testare la presenza di THC

 

È stato eseguito a Ponte Tresa, il campionamento su un quintale e mezzo di cannabis sequestrata alla frontiera.

Il sequestro era avvenuto alcune settimane fa da parte dei Carabinieri della stazione di Ponte Tresa che, nel corso dei servizi di controllo sulla circolazione stradale, in prossimità del valico con la Svizzera, avevano intimato l’alt ad un mezzo commerciale con a bordo due 25enne residenti a Milano.

I giovani trasportavano 150 kg di cannabis suddivisa in sacchi nei coi contenuti ve erano le infiorescenze notoriamente note di principio attivo. “Stante la difficoltà nel distinguere se si tratta effettivamente di Marijuana oppure la cosiddetta canapa light -spiegano i Carabinieri- i militari hanno proceduto al sequestro, fermo restando che, anche nel caso di sostanza la cui coltivazione è stata considerata lecita, per essere trasportata ha bisogno di idonee certificazioni. Soprattutto se viene fatto fare l’ingresso in Italia da un paese straniero”.

Attualmente i Carabinieri hanno provveduto ad eseguire i campionamenti da parte del personale specializzato a cui è stata affidata, allo scopo di individuare la percentuale di principio attivo. È necessario infatti, che la canapa sativa mantenga una percentuale di THC inferiore allo 0.5 % per considerarsi canapa light. Altrimenti diventa sostanza stupefacente a tutti gli effetti.

Usi dei semi di cannabis dopo il sì della Cassazione

Usi dei semi di cannabis dopo il sì della Cassazione

 

Quando si parla di semi di cannabis occorre innanzitutto fare delle distinzioni, per poter poi comprendere appieno i regimi normativi e gli orientamenti giurisprudenziali che si applicano a ogni categoria individuata. In primo luogo, semi di marijuana e di canapa sono due tipi diversi: se in entrambi i casi i semi contengono al loro interno solo CBD o cannabidiolo, quelli di canapa danno vita a piante con un tasso ridotto di THC (sigla che sta per tetraidrocannabinolo), mentre si possono acquistare online tra i migliori semi di cannabis del primo tipo, quelli da cui si sviluppano piante con contenuto di THC.

Dal momento in cui le due le varietà di semi sono ricchi, insieme a importanti nutrienti come proteine, sali minerali e acidi grassi polinsaturi, di CBD, il loro commercio è permesso senza limitazioni per utilizzo a fini alimentari.

Premesso quindi che la compravendita di semi di cannabis è legale in ogni caso, la successiva distinzione riguarda l’uso che viene fatto delle sementi. Come abbiamo visto quei tipi che rispettano il tetto massimo di tetraidrocannabinolo imposto dal legislatore possono arricchire la nostra dieta, ma gli altri?

Semi con THC

Gli altri possono, a determinate condizioni, essere piantati per la coltivazione di piante di cannabis. Questa possibilità è stata accordata dapprima dal Regolamento 2013/1307/UE per i casi in cui la coltivazione sia a uso industriale e che le infiorescenze delle piante di cannabis della coltura abbiano un livello di THC non superiore a 0,2%. Il Regolamento dell’anno successivo (2014/639/UE) ha integrato la disciplina introducendo un elenco delle specie di piante ammesse per tale pratica. Il legislatore italiano ha recepito e ampliato tali indicazioni, in quanto ha stabilito una soglia di tollerabilità per la coltivazione a uso industriale delle piante di marijuana, la cui concentrazione di THC nei fiori non superi lo 0,6%.

Come si può notare, era rimasto una grande lacuna legislativa: nessuna indicazione era fornita in relazione alla coltivazione a uso domestico di piante di cannabis, con riguardo a qualsiasi concentrazione di tetraidrocannabinolo. La questione è stata dunque affrontata dalla giurisprudenza di Cassazione, la quale, investita della questione, ha in prima battuta vietato in maniera tassativa la suddetta pratica. La ragione alla base del divieto risiedeva nel fatto che permettendo la coltivazione, poteva esserci il rischio che il breeder utilizzasse il raccolto per la vendita di sostanze stupefacenti, integrando il reato di spaccio e, di conseguenze, ledendo il diritto alla salute e la sicurezza pubblica.

La Corte di Cassazione e la coltivazione ad uso personale

Una visione siffatta, però, andava a ricomprendere anche quei casi in cui, da indizi evidenti, era chiaro che la coltivazione era indirizzata ad un uso meramente privato. Per questo motivo, con sentenza del 19 dicembre 2019, la Cassazione si è pronunciata in maniera parzialmente difforme, in quanto ha riconosciuto la liceità della condotta del coltivatore di piante di cannabis, quando da determinati elementi (esplicitati dalla stessa Corte) risulti chiaro che il soggetto non utilizzerà le infiorescenze per la vendita a terzi. L’assoluta novità sta quindi nel fatto che non si punisce il breeder per la coltivazione in sé e per sé, ma solo nel caso in cui si dimostri che il raccolto sia poi stato effettivamente utilizzato (o intenda essere utilizzato) per la vendita e l’arricchimento personale.

Questa decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite si inserisce in maniera più armonica nel quadro normativo italiano, in quanto il nostro Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti già prevede una disciplina di favore per chi detiene cannabis in quantità che facciano presumere un utilizzo personale della sostanza. Inoltre, apre a uno scenario inedito rispetto al generale e tradizionale atteggiamento dei governi italiani in materia di marijuana, ritenendo lecita la condotta del breeder che rivolga la sua attività solamente a un utilizzo privato.

Gli indizi che lasciano presumere l’uso personale riguardano innanzitutto la quantità di piante e quindi del raccolto che da esse si possa ottenere: minime quantità, infatti, non sembrano poter permettere al breeder di vedere il prodotto del suo lavoro; allo stesso modo rileva l’attrezzatura e l’organizzazione della coltivazione, poiché la Corte invita a distinguere i casi in cui vengano strumenti semplici, e di natura chiaramente non professionale nonché metodi domestici, da un’organizzazione e da mezzi molto più avanzati. Tuttavia, come elemento di chiusura, riconosce la colpevolezza del coltivatore se, nonostante all’apparenza la coltivazione domestica sembri rivolta a un uso personale, altri indizi dimostrino chiaramente che, in realtà, il fine sia differente. Questa circostanza, però, dovrà essere provata dall’accusa, in quanto in mancanza di fatti certi che indichino il contrario, la condotta del breeder sarà da considerarsi lecita.

Semi di cannabis: istruzioni per l’uso

Da quanto detto sopra si capisce che molti sono gli utilizzi dei semi di cannabis, a seconda della loro natura e della quantità di THC delle piante che da essi germogliano.

I semi di marijuana vengono venduti su molti siti online, tra i quali c’è anche Sensoryseeds.it e possono essere utilizzati come semi da collezione, per la conservazione della genetica della pianta. Si prospetta però un’apertura verso la possibilità della coltivazione domestica a uso personale a seguito della citata sentenza della Corte di Cassazione. Sarà probabilmente necessario attendere la risposta legislativa per sciogliere ogni dubbio al riguardo.

Diverso è il discorso per quei semi che sì danno vita a piante che contengono THC, ma in misura ridotta. In Italia quelli con concentrazione di tetraidrocannabidiolo non superiore a 0,6% sono utilizzati per la coltivazione ad uso industriale, mentre con il limite dello 0,2% largo uso viene fatto dei semi di canapa a fini alimentari.

Non si può nascondere un certo compiacimento per la pronuncia dei giudici, che hanno fatto cadere il tabù che aleggia da decenni intorno alla marijuana, in ragione del fatto che un numero sempre maggiore di studi ha riconosciuto le proprietà benefiche di certe sostanze contenute nelle infiorescenze e anche perché il commercio di cannabis legale sta acquisendo un’importanza non più trascurabile per l’economia del nostro paese. C’è da sperare allora che questa sentenza sia solo la prima apertura delle tante che seguiranno.